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Diritto di visita impedito e lesione del diritto alla bigenitorialità

Con l’ordinanza 9691 del 24.03.2022, capitolo più recente del noto caso Massaro, la Cassazione torna a sullo spinosissimo argomento del diritto di visita impedito e lesione del diritto alla bigenitorialità, cioè, dell’assenza di relazione tra figlio minorenne e genitore con lui non convivente. Avevamo affrontato l’argomento, in via generale; e con riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Il caso concreto

Il provvedimento decide sulle misure esecutive decise dal Tribunale per i Minorenni, prima, e dalla Corte d’Appello, poi, volte a superare il rifiuto di vedere l’altro genitore. Come accertato in via di fatto in sede di merito, «il bambino aveva subito, negli anni, continue pressioni psicologiche a causa del comportamento disfunzionale [del genitore convivente], volto a denigrare ed alienargli la figura [dell’altro]; lo stesso TM […] aveva affermato che emergeva dagli atti la grave condizione di pregiudizio del minore incastrato in un rapporto di lealtà  con [il genitore convivente] che non gli permetteva di autodeterminarsi ed esprimere la sua volontà senza coercizioni, attesa la condotta [del genitore collocatario] che volontariamente o involontariamente non gli consentiva l’accesso alla figura [dell’altro]» (p. 19).

Ritenevano i giudici di merito che l’unico strumento possibile per ristabilire la relazione tra il genitore escluso e il figlio fosse la recisione del rapporto con l’altro genitore, ritenuto eccessivamente oppositivo ed impeditivo, con trasferimento del figlio in casa famiglia. La Corte di Cassazione chiarisce che questo non è, nel caso di specie, lo strumento adeguato a risolvere il problema, e che anzi esso potrebbe rivelarsi eccessivamente violento e ingenerare conseguenze peggiori di quelle che intende risolvere.

L’argomentazione della Suprema Corte

L’argomentazione della Cassazione si sviluppa lungo sei punti.

Anzitutto: «nell’interesse superiore del minore, va assicurato il rispetto del principio della bigenitorialità, da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione» (p. 21). Richiamando giurisprudenza interna e della Corte Edu, la Cassazione conferma ancora una volta che si tratta di un diritto fondamentale del figlio di età minore, da considerarsi preminente nella relazione con i genitori. Quello alla bigenitorialità «è, anzitutto, un diritto del minore prima ancora dei genitori, nel senso che esso deve essere necessariamente declinato attraverso criteri e modalità concrete che siano dirette a realizzare in primis il miglior interesse del minore» (p. 23).

Ma, prosegue la Cassazione: dalla sistematica violazione di tale diritto non possono derivare conseguenze automatiche, come più volte chiarito sempre dalla Corte EDU. Il giudice deve utilizzare «l’insieme delle misure preparatorie che, non automatiche e stereotipate, permettono di raggiungere questo risultato [della tutela del diritto alla bigenitorialità], nella preliminare esigenza che le misure deputate a ravvicinare il genitore al figlio rispondano a rapida attuazione, perché il trascorrere del tempo può avere delle conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il fanciullo e quello dei genitori che non vive con lui»; e, quindi, «l’accertamento della violazione del diritto del [genitore non convivente] alla bigenitorialità, nonché la conseguente necessità di garantire l’attuazione del diritto, di per sé, non possono comportare automaticamente, ipso facto, la decadenza del[l’altro genitore] dalla responsabilità genitoriale, quale misura estrema che recide ineluttabilmente ogni rapporto, giuridico, morale ed affettivo, con il figlio dodicenne» (p. 22).

La Corte ribadisce poi il principio di preminenza del diritto del minore: esso impone dal punto di vista sostanziale il bilanciamento degli interessi in gioco, e dal punto di vista procedurale la necessità di prediligere l’interpretazione della legge «che corrisponde nel modo più efficace al superiore interesse del minore», tramite «una valutazione del possibile impatto (positivo o negativo) della decisione sul minorenne o sui minorenni in questione» (p. 25).

La Corte di Cassazione si esprime poi sull’annosa questione della PAS o Sindrome di Alienazione Parentale. Centrale non deve essere la qualificazione in termini nosografici del comportamento, ma l’accertamento del comportamento stesso: «ciò che dev’essere adeguatamente provato non è se la condotta abbia o meno provocato una PAS, che abbia le caratteristiche nosografiche descritte, almeno da chi la qualifica come sindrome. Ciò che occorre provare è invece se la condotta sia stata tale da aver leso in modo grave il rapporto tra il figlio e l’altro genitore, sino al peggior risultato ipotizzabile, quello di renderlo difficilmente recuperabile o del tutti irrecuperabile» (p. 26). Non è la prima volta che la Cassazione si esprime in questi termini: già Cass., ord. 17.05.2021, n. 13217, Cass., sent. 8.04.2016, n. 6919 e Cass., sent. 20.03.2013, n. 7041 avevano chiarito che la qualificazione psicologica o psichiatrica di una certa condotta, peraltro non pacifica in ambito scientifico, è irrilevante giuridicamente. Ciò che interessa e deve interessare al giudice è il fatto che il figlio non voglia incontrare l’altro genitore, senza che un’eventuale qualificazione in termini medici o psicologici lo vincoli acriticamente nelle sue valutazioni.

Non è e non può essere neanche compito del giudice «sindacare valutazioni proprie della disciplina della psicologia o delle scienze mediche, ma può certo verificarne la correttezza applicativa sulla base di criteri universalmente conosciuti e apprezzati» (p. 28). Al riguardo, la Cassazione critica l’uso di termini quale «abuso psicologico», che «appare indeterminato e vago, e di incerta pregnanza scientifica, insuscettibile di essere descritto secondo i parametri diagnostici della scienza medica, e di ardua definizione anche secondo le categorie della disciplina psicologica» (pp. 28-29); e critica l’equivalenza tra tale concetto, indeterminato e quindi privo di contenuto, e quello di “grave pregiudizio per il figlio” che ai sensi dell’art. 330 c.c. giustifica la decadenza dalla responsabilità genitoriale (p. 29). Questo passaggio, assieme agli altri che sollevano dubbi sui limiti delle Consulenze Tecniche d’Ufficio di tipo psicologico, sembra dover essere correlato da una parte all’esigenza, manifestata dal Legislatore, che in materia di famiglia i Consulenti Tecnici d’Ufficio abbiano alte professionalità e specializzazione (cfr. art. 1, c. 34, l. 206/2021, e i nuovi artt. 13 e 15 disp. att. c.p.c.); dall’altro alla recentissima sentenza delle Sezioni Unite 3088/2022 dell’1.02.2022, che impone (in materia di CTU tecnico-contabile, ma con princìpi generali che sembrano esportabili in ogni ambito) quesiti peritali precisi e concreti, e il divieto (sanzionato con la nullità) di sconfinamento delle indagini al di là dei limiti del quesito e di fondare la valutazione su tali accertamenti “oltre confine”.

In questo contesto «ogni decisione che si ponga il problema se privilegiare l’interesse del minore in prospettiva futura, al presso di produrgli una sofferenza immediata, deve compiere un difficilissimo bilanciamento: la scelta della prospettiva futura può essere ragionevolmente privilegiata solo se è altamente probabile che dia esito positivo nel lungo periodo», con sofferenza nel breve periodo superabile «senza lasciare strascichi troppo traumatici» (p. 30). Il primo e principale accertamento che il giudice deve eseguire è quello della reale situazione del figlio di età minore, tramite il suo ascolto se ultradodicenne o infradodicenne capace di discernimento. Con un avvertimento, aggiunge la Suprema Corte: si tratta di «adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo». Il giudice che lo ometta o che proceda all’ascolto indiretto (tramite CTU o altro esperto) deve adeguatamente motivare le ragioni della sua scelta, «atteso che solo l’ascolto diretto del giudice dà spazio alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda (Cass. n. 1474/2021)» (p. 31). Anche in questo caso, il riferimento diretto della Cassazione sembra essere non solo alla propria giurisprudenza precedente, ma anche alla Riforma delegata dall’art. 1, c. 23, lett. b, l. 206/2021: nel nuovo procedimento di famiglia al giudice è imposto l’ascolto diretto del figlio minorenne qualora questi «rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori».

Gli strumenti che il giudice ha a disposizione per superare la lesione del diritto alla bigenitorialità

E, quindi: cosa deve fare il giudice, eseguiti gli accertamenti? Deve optare per lo strumento esecutivo che, al tempo stesso, dia maggiori garanzie di successo in futuro e minori traumi nel presente. La decadenza dalla responsabilità genitoriale e il prelievo coattivo verso una casa famiglia, nel caso concreto sottoposto alla Cassazione, non rispondono a questi criteri.

L’arsenale giuridico alternativo indicato dalla Suprema Corte è duplice: «l’utilizzo delle sanzioni economiche ex art. 709ter c.c. nei confronti di quel [genitore] il quale dolosamente o colposamente si sottragga alle prescrizioni impartite dal giudice» (p. 34); e il «recupero attraverso una paziente ripresa dell’opera di assistenza psicologica al minore» (p. 35), che «implichi anche una adeguata attività psicologica di sostegno» al genitore convivente (p.35), la quale avrebbe a sua volta il duplice scopo di persuadere questi a convincere il figlio alla relazione con l’atro genitore, e far venir meno «la spada di Damocle costituita dal timore della recisione definitiva del rapporto del minore» (p. 35).

Questo articolo è stato redato dell’Avvocato Davide Piazzoni